Samuel Gentile.

Brand Master

Brand Master

Educĕre, ovvero l’essenza del marketing interno

Qualche giorno fa ho avuto una lunga chiacchierata al telefono con un cliente. Una di quelle che ti metti le cuffie, il telefono in tasca e sai che è meglio affrontarla con una tisana e un angolo di privacy, per dedicare un ascolto attento, a quello che viene detto ma anche non detto.

Sentivo nella sua voce una profonda delusione, espressa nei confronti della strategia di marketing e nello specifico nel posizionamento di marca che ho studiato per lui circa due anni fa.

Non si trattava di una delusione relativa al lavoro che ho fatto con il mio team, per studiare il mercato e progettare la nuova “brand identity”, si trattava di una delusione derivante dal fatto che i concetti studiati e progettati con cura non trovino riscontro nell’applicazione del quotidiano. Nello specifico i comportamenti e le azioni della rete vendite e degli ambassador scelti per rappresentare il brand, sono risultati molto distanti dalle aspettative (elevate) che questa azienda ha nei confronti dei propri agenti e rappresentanti.

Da questa insoddisfazione è partita la telefonata, con la richiesta di elaborare una nuova strategia più allineata al mercato, al contesto, al pubblico e che venga compresa anche dagli agenti e dagli ambasciatori: “Samuel bisogna semplificare il messaggio, i nostri non fanno quello che gli chiediamo. Spostiamo il focus del progetto, mettendo l’attenzione su altre caratteristiche, meno difficili da comprendere, così che il pubblico acquisti senza indugi, convinto che il prodotto faccia al caso proprio”.

Non scendo nei dettagli, del tipo di prodotto o del tipo di mercato. Posso solo dire che è un prodotto particolare con un mercato specifico. E in questa frase si potranno riconoscere il 99% dei miei clienti ma anche il 99% di qualsiasi imprenditore convinto di fare la differenza con un prodotto speciale. Quindi racconto tutto ciò perché le mie riflessioni possano essere utili anche ad altri.

Chi mi conosce sa che non resto in superficie e non prendo per assolute le affermazioni dei clienti, solo perché so che da dentro è sempre difficilie vedere come stanno quelle cose che puoi vedere dall’esterno, perché non sei influenzato e adotti una visione d’insieme, che non è vincolata dalla propria presenza e dai propri limiti di autovalutazione.

Spesso, se sei dentro a una situazione problematica, potresti essere parte del problema. E questo ti porta ad assumere degli atteggiamenti poco responsabili. La colpa è degli altri, la strategia non funziona, il mercato è saturo, la gente non capisce, il problema non sono io.

Quindi ho indagato, durante la telefonata, per capire cosa sia stato fatto, da parte dei vertici, nei confronti degli agenti di vendita e degli ambasciatori: che tipo di formazione? Quali attività sul campo? Quali sistemi di trasferimento dei valori e quali di accompagnamento alla comprensione e all’utilizzo delle “brand guidelines”?

La risposta che è stata data a me è la risposta al problema che è stato sollevato: “Abbiamo mandato una newsletter con le linee guida e la lista delle attivitò da fare, con degli esempi di condivisione o di creazione di post per i social network”. Punto.

Nessuna attività formativa, nessuna esperienza diretta, nessun trasferimento fianco a fianco di valori, nessun accompagnamento alla comprensione. Solo una email con una sintesi estrema delle azioni che ci si aspetta vengano fatte.

Lo chiamo effetto interruttore, è un errore comune a tanti imprenditori e manager. La presunzione che basti un’azione per ottenere un risultato. Come si fa quando si schiaccia il pulsante per accendere la luce. Schiaccio e si accende. Schiaccio e si spegne. E con la stessa serenità e spensieratezza, alcune persone eseguono l’azione sull’interruttore degli altri, solo che l’interruttore non c’è. Gli agenti non hanno un pulsante dietro la nuca, nemmeno gli ambasciatori-rappresentanti. Sono persone, ognuno con proprie abitudini e comportamenti, ognuno con uno stile e una capacità differente di usare approcci, metori e strumenti, e soprattutto ognuno con il proprio obiettivo personale, diverso da quello dell’azienda o del brand o dell’imprenditore.

Se alle persone bastasse una email per cambiare comportamenti e compiere le azioni corrette, potremmo risparmiarci un bel po’ di problemi, invece ciò non accade e i motivi sono tanti. Non possiamo risolverli, ma possiamo capire come agire e intervenire e il primo passo è cambiare il paradigma con il quale osserviamo, da dentro, la nostra organizzazione.

Ho la fortuna di avere una figlia, dalla quale sto imparando molto, soprattutto quando tento di insegnarle qualcosa di importante. Tento, perché non ho la formula giusta, nemmeno la bacchetta magica, ma ho fiducia nella forza di una parola, che trova nella sua radice un significato profondo: educare.

  • Educĕre: Trarre fuori, condurre, allevare.

Si tratta di accompagnare, non di dare un’istruzione o un comando. È un processo di lunga durata, basato sul buon esempio e sulla condivisione di pratiche e discipline. Il compito del maestro è di stare accanto all’allievo, per il tempo necessario affinché l’allievo abbia sviluppato una propria sensibilità.

Da padre quello che so è che il processo educativo è lungo e molto articolato, richiede una continua esposizione dei propri princìpi, della propria morale e del proprio senso etico, che vengono continuamente scansionati e sottoposti ad una valutazione a lungo raggio, una sorta di filtro di coerenza, sulla quale mia figlia costruisce la fiducia ad un determinato modello di comportamento.

Da ragazzo del marketing e custode del brand dei miei clienti, quello che so è la stessa cosa che ho scritto sopra. Gli agenti e gli ambasciatori vanno educati, vanno condotti, per il tempo necessario, nel percorso di costruzione dei comportamenti basato su condivisione di approcci, metodo, disciplina e strumenti.

Una email non basta, anzi, offre un esempio sbagliato di come si fanno le cose.

Stamattina ho raccontato questo aneddoto ad un amico, in una forma molto più breve, perché so che sarei arrivato al punto con una metafora lampante. Nel linguaggio di marketing gli agenti e gli ambassador sono spesso chiamati evangelist. La loro missione è portare in giro il credo. Ma gli evangelisti veri, i discepoli, hano passato un sacco di tempo con il loro leader spirituale, prima di andare in giro a diffondere il verbo. Nemmeno ai tempo nostri il buon Cristo non manderebbe una email a qualche eletto, con la presunzione di avere una cerchia di evangelisti pronti a tutto, per raccontare una storia che manco hanno visto con i loro occhi.

Quindi il consiglio di questa storia, è di non sottovalutare l’importanza di affiancare, accompagnare e condurre le persone che lavorano per la tua organizzazione, nell’acquisire sicurezza nel tuo modo di fare, in ciò che credi, in ciò per cui vale la pena lottare. Il buon esempio e il continuo confronto sono il sistema più efficace per costruire i buoni comportamenti che tanto desideriamo negli altri. Se ti trovi in una situazione analoga, puoi istituire diversi momenti di contatto con i tuoi ambasciatori e agenti. Ma anche con l’organico che tutti i giorni lavora nella tua organizzazione. Riunioni frequenti, condivisione di buone pratiche che portano a buoni risultati, laboratorio di sperimentazione guidata di nuove abitudini, newsletter interna dedicata per la diffusione di messaggi di allineamento. Ci sono una infinità di modi e di strumenti per dare il buon esempio. L’essenziale è comprendere che l’interruttore non esiste, l’azione non è precisa e nemmeno immediata. Ci vuole tempo, pazienza e amore. Come con i figli.